Sono seduto alla stessa panchina dell’ultimo post che ho pubblicato, quella fuori dal centro commerciale di Savona. Ma questa volta ho quarant’anni, sono qui per accompagnare mio padre dal dentista. E mia madre è morta.
Da giorni amici e conoscenti mi fanno una domanda difficilissima: “Come stai?”.
La verità è che non lo so. La verità è che per la maggior parte del tempo sto bene: è come se nulla fosse successo, mia madre non c’è più e ne sono continuamente consapevole eppure non fa alcuna differenza. Sto bene.
Oppure, in altri momenti, fa tutta la differenza del mondo e non so come farà a andare avanti mio padre da solo, come farò io. Ma anche in quel caso oltre a una certa dose di preoccupazione per il futuro non c’è dolore, non c’è disperazione e neppure dispiacere. Una premura apatica orientata a un futuro che sarà diverso ma non doloroso. Sto bene.
Sono due stati molto diversi, quasi opposti. Li vivo entrambi con un certo senso di colpa domandandomi se non dovrei stare peggio, piangere con la faccia nel cuscino, cose così.
Ma quello che ignoro per la maggior parte del tempo è quell’abisso che divide i due stati d’animo. Tra le due serenità quasi apatiche c’è una voragine, e quando passo da una all’altra per pochi secondi, a volte minuti, lo sento: il vuoto sotto ai piedi, la vertigine e la paura, il fiato che si mozza come se l’aria mancasse in tutta la stanza, risucchiata da quelle profondità.
Alle volte basta una parola, un oggetto, la dedica ritrovata aprendo le pagine di un libro e l’abisso è lì, il terreno non c’è più e senza preavviso sto precipitando.
Forse l’elaborazione del lutto è questo: costruire un ponte fra i diversi stati d’animo, ricostruire quelle strade che connettevano il passato, il presente e il futuro per poter trovare un percorso da fare assieme alle persone che ci sono vicine. Ma senza dimenticare quel vuoto. Trovare un posto dove, al sicuro, poterlo visitare.